Arte, mare, pensieri: come un’onda lunga che attraversa gli anni e lo spazio, dalla Grecia natìa all’Italia della cultura e della dialettica. Nato al Pireo nel 1936, giunto ventenne in una Roma aperta alle novità artistiche, Jannis Kounellis è un segno distintivo della creazione italiana e internazionale degli ultimi sessant’anni: in grado di rappresentare le tensioni ideologico-culturali dell’Arte povera, ma già a suo agio nel contesto della capitale degli anni Cinquanta e grande testimone, fino alla sua scomparsa nel 2017, di una visione del fare arte come riflessione e ricomposizione del pensiero.
A Roma si iscrive all’Accademia di Belle Arti sotto la guida di Toti Scialoja, cui deve influenze dell’espressionismo astratto che, con l’informale, costituisce il binomio dal quale si avvia il suo percorso creativo. Dalle prime “icone urbane” – segni, numeri, lettere come impianto mentale di una visione tra New Dada e Pop Art – la sua ricerca si attua cercando di evitare le costrizioni della consuetudine stilistica. Ricerca iniziata per segni, attraverso le lettere dell’alfabeto: tracce di nero tra un bianco predominante, lettere che non significano, non simbolizzano ma testimoniano dell’esistenza quotidiana persa tra le parole delle nostre biografie.
Nel 1960 allestisce a Roma una prima personale alla galleria “La Tartaruga”, evidenziando un’urgenza comunicativa che lo allontana da prospettive individualistiche ed estetizzanti puntando al valore pubblico e collettivo del linguaggio artistico. Si avvia poi in Kounellis un momento di transizione tra il rigido stamparsi sulla tela bianca delle lettere nere e le marine del 1963-66, diversa forma di percezione e visione del rapporto spazio-pittura nonché risposta al timore di restare legato, nella comune percezione, ad alcune lettere, che persistono nel suo immaginario ma cominciano a modificarsi sottilmente.
Nel corso della sua vicenda artistica, e partendo da concrete situazioni storiche, Kounellis tende a universalizzare la sua riflessione, volendo dare testimonianza dell’attività di un processo di pensiero. Tale operazione avviene mediante l’accumulo di elementi fisico-naturali (onde dipinte, animali vivi – pappagallo, cavalli –, cotone, carbone, legno) o attraverso il cortocircuito di reperti storici di un’età lontana come citazioni di storie: storie narrate per frammenti, ma anche Storia che si ritrova e non si annulla.
Nel Senza titolo del 1967 (pappagallo, sostegno, vaschette, lastra di ferro), si riscontra per la prima volta una presenza viva nell’opera dell’artista: presenza chiamata a svolgere un ruolo importante sia quando a porsi come opera sono dodici cavalli sia quando è una donna o l’artista stesso.
Questo Senza titolo ha un’elevata qualità “pittorica”, tanto da autorizzarne la lettura alla stregua di un quadro o, meglio, di un “tableau vivant”: il piumaggio variopinto dell’uccello si stacca con forza dal fondo incolore della lastra di ferro e – oltre all’elemento “vita” inserito nell’opera, con la sua peculiare imponderabilità – è proprio questa prospettiva “tradizionale” di interpretazione dell’insieme ad attirare lo sguardo.
Pur avendo realizzato poche tele in senso tradizionale, il quadro come visione concentrata è uno degli snodi fondamentali dell’opera e della riflessione di Kounellis. Nel 1967 realizza un Senza titolo in cui un quintale di carbone è rovesciato sul pavimento dello studio e delimitato da una linea bianca geometrica, una sorta di quadrato che lo contorna e lo formalizza.
Da questo momento Kounellis esce dal quadro e questa uscita, questo passaggio dalla rappresentazione pittorica alla presentazione fisica, è determinante ai fini della sua poetica e ai fini della dinamica di tutta la sua azione pittorica successiva. Per l’artista, infatti, la pittura non è qualcosa che si debba necessariamente compiere, realizzare attraverso una tela o un pennello o dei colori. La pittura si può fare con qualsiasi cosa, perché il problema è di suscitare un’immagine, un’immagine mentale che ha bisogno di supporti e a questo punto è indifferente quale supporto sia: un olio su tela, un sacco.
Operando in questo modo, Kounellis introduce nel proprio lavoro anche alcuni elementi sensoriali che prima mancavano nella pittura di rappresentazione; ad esempio il peso o l’odore, come nel caso del carbone, o la sensazione oleosa di questo materiale.
Uno dei temi del dibattito artistico, il nesso arte/vita, assume una particolare rilevanza alla fine degli anni ‘60 per la valenza politica che viene a rivestire. In quel periodo diviene emblematico di un atteggiamento e di un bisogno di superare le rigide contrapposizioni della società industriale, investendo le sue strutture con la violenza della negazione, del rimescolamento dei linguaggi e attraverso una pratica comportamentistica provocatoria. Nelle mostre di Arte povera, infatti, l’uso di prodotti e materiali comuni suggerisce per l’arte una funzione mitico-creativa che ripropone suggestioni senza tempo.
In una prima fase, la ricerca dei poveristi conserva una notevole predilezione per una fisicizzazione rumorosa e “corposa”, quasi neofuturista, come appare l’installazione-performance con i Cavalli nella galleria “L’Attico” di Fabio Sargentini nel 1969.
Nella fase successiva si giunge a una fisicizzazione diffusa e all’utilizzo di elementi che consentono un approccio “mediato” all’opera. Oggetti di uso comune o prodotti industriali vengono presentati in una logica differente da quella del sistema economico-sociale imperante.
L’oggetto diventa dunque il punto d’appoggio per il salto tra arte e vita. Il “medium” utilizzato consente l’espressione di un’idea, più esattamente, la “costruzione” dell’idea, la sua presentazione teatralizzata. Ne deriva la fisicizzazione di un’idea, un’idea tradotta in “materia”. Le sue installazioni diventano così scenografie che occupano la galleria e circondano lo spettatore rendendolo coprotagonista di uno spazio che può anche ospitare animali vivi, contrapposti alle geometriche durezze di materiali di produzione industriale.
L’opzione ideologica è fondamentale in Kounellis. Nel corso della sua ricerca egli fa riferimento ai modelli di più forte tensione morale e sociale della storia. Un esempio è il Senza titolo del 1969 (lastra di ferro con mensola, candela, gesso): sulla lastra è tracciata col gesso l’iscrizione “Libertà o morte W Marat W Robespierre”. L’opera si presenta come un altarino alla rivoluzione francese, con candela accesa in segno di “devozione”.
Nel corso degli anni Settanta il processo creativo di Kounellis si carica di un diverso spessore. Come di fronte alla percezione dell’impossibilità radicalmente innovativa offerta dall’Arte povera, Kounellis procede in modo sempre più deciso all’utilizzo di materiali – anzi, di oggetti – che non sono, in senso proprio, né primitivi né poveri: ciminiera, tavoli, strumenti musicali sofisticati (violino, pianoforte), calchi in gesso. O produce opere in cui è esplicito il richiamo alla storia dell’arte (marina col nome Ensor, disegni a carboncino che si rifanno a Munch, le ciminiere di de Chirico, il Quadrato nero di Malevich).
Nella galleria di Mario Diacono a Bologna Kounellis presenta la marina col nome Ensor (Senza titolo: olio su tela rappresentante il mare con al centro la scritta “James Ensor”, cornice di ferro), concepita a Villa Orlandi ad Anacapri nel 1978. L’opposizione ferro/tela rientra in un ampio discorso che Kounellis svolge da anni. La dialettica tela/cornice di ferro riprende infatti quella carbone/contenitore geometrico (Senza titolo, 1967), cotone/contenitore geometrico (Senza titolo, 1967), cactus/struttura di ferro, (Senza titolo, 1968), ecc., opere in cui si stabilisce un’opposizione evidente tra il materiale naturale e il prodotto artificiale, tra sensibilità e struttura, come le definisce Kounellis.
Nelle installazioni degli anni Ottanta alla vitalità del fuoco subentra la presenza della ciminiera e della fuliggine mentre resti imbalsamati o squartati sostituiscono gli animali vivi: si pensi alla mostra all’Espai Poblenou di Barcellona nel 1989, caratterizzata da quarti di bue fissati con ganci a lastre metalliche e illuminati da lanterne a olio. Ganci e lanterne, coltelli e strutture, letti e tavoli appaiono possibili icone di una contemporaneità oltre il tempo, i segni di un’apparizione che si fa materia nella storia.
Nel corso degli anni Novanta Kounellis ripropone con variazioni manieristiche temi e suggestioni precedenti, reinterpretando la propensione al segno monumentale. In quest’ottica l’installazione “Offertorio” del 1995 in piazza del Plebiscito assume valenza d’intervento sulla scena urbana di Napoli.
Dopo la ripresentazione dell’installazione dei cavalli a Londra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nel 2002 Kounellis costruisce un labirinto di lamiera – “Atto unico” – lungo il quale dispone elementi tipici della sua ricerca come le “carboniere”, le “cotoniere”, i sacchi di iuta e i cumuli di pietre.
Nel 2012, la mostra presentata dall’artista al Museo di Arte cicladica di Atene è una personale nella terra natale, in anni di crisi, nell’ottica di un neo-poverismo artistico e socio-economico: ove vetri, sacchi, metalli appaiono tracce di una modernità ottocentesca deragliata, uscita da quei binari che Kounellis e de Chirico – altro “italo-greco” – presentano e citano. E la portata estetica della riflessione kounellisiana si fa universale per un ulteriore momento di raffronto con la dialettica della storia.

Art, sea, thoughts, like a long wave crossing years and space, from the homeland Greece to the Italy of culture and dialectics. Born in Piraeus in 1936, arrived in a Rome open to artistic innovations when he was about twenty years old, Jannis Kounellis is a distinctive symbol of the Italian and international creation of the last sixty years: capable of representing the ideological-cultural tensions of the Arte Povera, yet already comfortable in the context of the Capital in the fifties and great witness, until his death in 2017, of a consideration of art as thought reflection and reconstruction. In Rome he enrolls in the Academy of Fine arts, under the guide of Toti Scialoja, to whom he owes certain influences of abstract expressionism that, together with informality, make the binomial that is the basis of his creative process. From the first “urban icons” – signs, numbers, letters as mental installation of a vision between New Dada and Pop Art – his research is carried out trying to avoid the constrictions of stylistic traditions. A research begun through signs, through the alphabet letters: traces of black among a predominant white, letters that don’t mean or symbolize anything, but show our daily existence lost among the words of our biographies.
In 1960 he prepares in Rome his first solo exhibition at the “Tartaruga” gallery, highlighting a communicative pressure that distances him from an individualistic and aesthetical prospective aiming at the public and collective value of the artistic language. Later, Kounellis begins a time of transition between the rigid printing of black letters on white canvas and the marine paintings of 1963-66, a different form of vision and perception of the space-painting ratio, as well as a reaction to the fear of being bound, in the common perception, to certain letters, that endure in his imagination but begin to finely transform. During his artistic journey, and starting from concrete historical circumstances, Kounellis tends to universalize his reflection, wanting to give a testament of the activity of a thought process. This operation is realized through the accumulation of physical-natural elements (painted waves, live animals – parrots, horses -, cotton, coal, wood) or through the short-circuit of historical evidences of a distant age such as quotes taken from stories, tales narrated through fragments, but also a rediscovered, not cancelled History.
In the 1967 Untitled (parrot, support, bowls, iron slab), we can find, for the first time, a live presence inside the artist’s work. A presence summoned to carry out an important role whether the piece is represented by twelve horses or by a woman or the artist himself. This Untitled features an high “pictorial” quality, so much that it could be read as a painting or, better, a “tableau vivant”: the multicolored plumage of the bird strongly detaches from the colorless background of the iron slab and – beyond the “live” element featured inside the piece, with its peculiar weightlessness – it is exactly this “traditional” perspective in the interpretation of the whole piece that catches the eye. Despite having realized few traditional canvases, painting as a focused vision is one of the fundamental turning points in Kounellis’ works and reflections. In 1967 he realizes an Untitled where 100 kilograms of coal are thrown on the floor of his atelier, and are delimitated by a geometric white line, a sort of square that surrounds the coal and gives it shape. From this moment, Kounellis steps out the square and this exiting, this passage from the pictorial representation to the physical introduction, is crucial for his poetic and for the dynamics of all his later pictorial action. For the artist, in fact, painting isn’t something that has to be necessarily fulfilled, realized through canvas, paintbrush or colors. Painting is something you can do with everything, because the goal is to create an image, a mental image, that needs to be supported and at this point it doesn’t matter which support it is: oil on canvas, a sack.
By working in this way, Kounellis also introduces in his work sensorial elements that were still not present in representational painting: for example, the weight or smell, as with the coal, or the oily sensation of said material.
One of the themes of the artistic debate, the art/life connection, assumes a certain importance at the end of the sixties because of the politic significance that it fulfills.
During that period, there’s an attitude, a need to overcome the rigid contrats of the industrial society, assaulting its structure with the violence of negation, of language mixing and through provocative behavioral practices. In the Arte Povera exhibitions, in fact, the use of common products and materials suggests a mythical-creative function for art, that reproduces timeless suggestions.
In the first phase, the search of the Arte Povera artists retains a considerable predilection for a loud and “substantial” physicalization, almost neo-futuristic, as we can see in the 1969 installation-performance with horses by Fabio Sargentini’s gallery “L’Attico”.
In the next phase we reach a broad actualization and the employment of elements that allow a “mediated” approach to the work. Everyday objects or industrial products are shown under a different logic from the ruling economic-social system.
Therefore, the object becomes the foothold for the jump between art and life. The used “medium” allows the expression of an idea, more exactly, the “construction” of the idea, its dramatized presentation. The result is the concretization of the idea, an idea translated into “matter”. His installations become sceneries that occupy the gallery and surround the audience, making it co-protagonist of a space that can also accommodate live animals, opposing the geometric hardness of the industrial-based materials.
The ideologic option is essential in Kounellis. During his research he references models of strong moral and social tension in history. An example is the 1969 Untitled (iron plate with shelf, candle, chalk): on the plate there is an inscription made with chalk “Freedom or death hurray to Marat hurray to Robespierre”. The piece is presented as an altar dedicated to the French Revolution, with the lit candle as a sign of “devotion”.
During the sixties, Kounellis’ creative process assumes a different depth. As if perceiving the radically innovative impossibility offered by the Arte Povera, Kounellis is more determined to use materials – or rather, objects – that are not, in the proper sense, primitives nor humble: chimney, tables, sophisticated musical instruments (violin, piano), chalk molds. Or he realizes works where the references to art history are explicit (marina with the name Ensor, charcoal sketches inspired by Munch, De Chirico’s chimneys, Malevich’s Black Square).
In Mario Diacono’s gallery, in Bologna, Kounellis presents the marina with the name Ensor (Untitled: oil on canvas depicting the sea with the writing “James Ensor” in the middle, iron frame), realized in Villa Orlandi, Anacapri, in 1978. The opposition iron/canvas is part of a broad subject on which Kounellis has worked for years.
The dialectics canvas/iron frame, in fact, references the coal/geometric container (Untitled, 1967), cotton/geometric container (Untitled, 1967) and the cactus/iron structure (Untitled, 1968) dialectics, and so on, works where an evident opposition is established between the natural material and the artificial product, between sensibility and structure, as Kounellis called it.
In the installations prepared during the eighties, the fire’s vitality is replaced by the chimney and smut, while embalmed or butchered remains replace the live animals: as in the 1989 exhibition at the Espai Poblenou in Barcelona, characterized by quarters of ox hung with hooks to metallic plates illuminated by oil lamps.
Hooks and lanterns, knives and structures, beds and tables appear as possible icons of a contemporality outside time, the sign of an apparition that becomes matter in history. During the Nineties, Kounellis re-proposes, following mannerist variations, previous themes and suggestions, reinterpretation his inclination for the monumental sign. In this perspective, the 1995 installation “Offertory” in Piazza del Plebiscito assumes an intervention meaning on Naples’ urban scene. After the reproduction London’s horses installation, at the National Gallery of Modern Art in Rome, in 2002, Kounellis builds a metal labyrinth – “Single Act” – along which he places typical elements of his research such as the “carboniere”, the “cotoniere”, the jute sacks and the rock piles.
In 2012, the exhibition presented by the artist at the Museum of Cycladic art of Athens is a solo exhibition in his homeland, during years of crisis, under the view of an artistic and socio-economic Neo-Poverism: where glass, sacks, metals appear as traces of a nineteenth-century and derailed modernity, out of those tracks that Kounellis and de Chirico – another “Italian-Greek” – show and mention. And the aesthetic reach of the Kounellisian reflection becomes universal for an additional moment of comparison with the dialects of history
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