“Mi piacerebbe avere uno studio mobile per poter lavorare e viaggiare contemporaneamente”. Con queste parole Marisa Albanese inaugura il suo video documentario Sguardo nomade, un viaggio, appunto, tra le tracce che l’artista lascia tra i sentieri della sua arte, tra gli spostamenti, fisici e mentali, che diventano elementi presenti, permanenti e continui del suo lavoro. È proprio il viaggio, nelle sue più complesse accezioni, come pensiero e percorso, come spazio infinito in cui potersi perdere con lo sguardo, il movente attorno al quale Marisa Albanese ha saputo costruire, con coscienza critica ed eleganza estetica, un costante attraversamento, lungo e intenso, tra i fragili lacerti della memoria, della storia, della società passata, presente e futura.
La prima volta che sono entrato nello studio di Marisa Albanese mi sono immerso nella purezza dei bianchi, perso nel nero dei segni, specchiato nelle cromature dell’acciaio, mi sono inabissato nell’intimità di una dimensione profonda, in cui la forma, la materia e il linguaggio diventano architetture portanti, spazi d’indagine, basi essenziali sulle quali l’artista sapientemente costruisce le sue narrazioni sulle strutture della conoscenza e della comunicazione umana, interrogandosi sulle situazioni del nostro tempo, sulla condizione antropologica e sociologica dell’esistenza. In quello stesso momento mi sono reso conto che per Marisa Albanese “l’arte è un gesto vitale”, l’opera è un universo in cui l’artista definisce il senso del suo fare arte oggi tra le instabili linee del tempo e dello spazio. Sono proprio il tempo e lo spazio di questo continuo viaggio a intrecciare le maglie di una tessitura che diventa pensiero e azione nelle sue opere, di opere che si muovono su un territorio in continuo mutamento, dove scorrono incessantemente le nostre esistenze.
“Posso essere mare chiuso? Costruire barriere? Può il salvataggio diventare una prigionia? Queste le domande che il mare nostrum, il nostro mediterraneo, scrive sul suo stesso sale”, così Marisa Albanese, nell’opera Mare chiuso definisce i confini dello spazio e del tempo presente, affronta la difficile condizione delle migrazioni, traccia una ferita ancora aperta e dolorosa della nostra storia attuale. Una distesa di sale, metafora visiva del Mar Mediterraneo, è attraversata da una punta d’acciaio che costruisce una frontiera fisica e immaginifica, in un solco che diventa una barriera sempre più difficile da oltrepassare per quelle esistenze che affrontano viaggi disperati alla ricerca di libertà.
Quello dell’artista napoletana è un viaggio inteso come spostamento, come spaesamento della memoria che, come ha sottolineato Agamben, è “l’organo di modalizzazione del reale, che può trasformare il reale in possibile e il possibile in reale”. Marisa Albanese sembra rileggere i concetti di esistenza e identità a partire dalle “componenti del ragionamento” che Aristotele ha identificato nella Retorica. Le sue opere diventano un alfabeto, un glossario per ricodificare l’esistenza umana, “spazi critici” che si fanno rappresentazione dell’ethos inteso come norma, comportamento, del logos come manifestazione del pensiero, come scelta e capacità di raccontare, e del pathos come forza emotiva, sofferenza, dramma. Qui si situa il vero senso ontologico dell’estetica dell’artista, in questo corpo a corpo con la conoscenza, con la ricerca, con l’analisi, con la dischiusura del finito nell’infinito, con la volontà di indagare lo spazio dell’opera per costruire strutture di senso e di apparenza, superfici a volte reali a volte immaginifiche di una narrazione sempre attenta alle architetture del tempo e al senso della storia.
Ho un vivido ricordo di una sua mostra del 2015 a Villa Pignatelli (Napoli) in cui la sala da ballo si presenta come un teatro candido e violento, essenziale e fragile, dove le strutture primarie della carta incontrano la banalità e la malvagità degli oggetti. Colpo Mancino (composto da tre elementi), Finto Oro e Legame diventano la trama e l’ordito di una metanarrazione per immagini delle condizioni precarie, negate e violate dell’essere umano. La carta bianca, socle du monde, viene trafitta da un coltello, invasa e penetrata dalla natura deformata, sovrastata da una scatola d’oro che contiene, nel suo falso splendore, le storie delle violenze domestiche, tutto mentre una testa instabile cerca il suo equilibrio tra due blocchi del candido bianco. Metafore dell’esistenza, forme di un tempo feroce, le iconografie rigorose dell’artista sembrano innocenti assassini da smascherare.
I temi ricorrenti sono la letteratura, la storia, la condizione umana, le esperienze antropologiche e sociologiche, sempre indagati con lucidità e attenzione, con grande senso etico ed estetico e forte impatto emotivo per lo spettatore. Le sue opere sono, infatti, trappole iconiche che si concentrano proprio sul concetto di spostamento, inteso come condizione di cambiamento, di conoscenza, di ricerca, ma anche e soprattutto come difficoltà, fuga, situazione di precarietà ed emarginazione, in un tempo storico controllato da un sistema globale feroce e da un costante sisma esistenziale. Un “dedalo” visivo ed esperienziale che definisce una “svolta iconica” intesa come riconoscimento della valenza antropologica e sociologica dell’immagine, come un corpus narrativo del tempo e dell’esistenza attuale che, utilizzando una molteplicità di linguaggi – disegno, installazioni, video, sculture, libri d’artista – indaga con lucidità, fermezza e grande valore intellettuale le condizioni metatemporali dell’essere umano.
Così, Marisa Albanese racconta con immagini la resistenza all’oppressione, i movimenti per i diritti civili con i suoi Giardinieri: Mahatma Gandhi, Rosa Parks, Malala Yousafzai. Queste tre figure, fondamentali nella storia contemporanea, sono presentate dall’artista con un linguaggio inedito e originale, il paperline, da lei ideato, una tecnica di dislocamento dell’immagine dalla superficie piana al taglio dei fogli, che permette di modificare l’apparente unico punto di vista della fotografia, di spostare, con gesto anastrofe, con un’inversione dell’ordine abituale della visione, la bidimensionalità della fotografia verso la tridimensionalità della scultura. La sovrapposizione dei fogli di carta, che da vita a queste icone, diventa stratificazione della memoria, della storia, di sguardi accumulati nel tempo dell’umanità, presenze che restituiscono, nella loro forma scultorea, il tempo vissuto.
Se è vero che le installazioni, le sculture e i video sono lavori di grande fascinazione, spazi di sperimentazioni estetiche complesse e attraenti, di riflessione e analisi sulle questioni e le derive del tempo presente, è il disegno, il suo primo amore – “da bambina disegnavo sotto i tavoli, dentro e ai lati dei mobili di casa” – lo strumento di analisi e di narrazione privilegiato di Marisa Albanese, il suo abecedario che attraversa le pagine dei suoi quaderni, del suo diario di viaggio, lo spazio più intimo in cui segnare le traiettorie del respiro del paesaggio, la percezione della realtà e della sua alterità, la superficie sulla quale si poggia e s’imprime il suo sguardo nomade, quello di un’instancabile combattente dell’arte.
“Si può viaggiare stando seduti su una sedia davanti ad una parete bianca, oppure si può viaggiare attraverso il mondo”.
a wandering look into art
“I would love to have an itinerant atelier so that I could work and travel at the same time”. With these words Marisa Albabese introduces her documentary video Sguardo Nomade, a voyage, indeed, through the traces the artist leaves along the paths of her art, through the physical and mental transfers that become constant and permanent elements of her work. And it is precisely the voyage, in its most complex meanings, as thought and journey, as infinite space where our gaze can be lost, the reason upon which Marisa Albanese was able to build, with critic awareness and aesthetic elegance, a constant crossing, long and intense, between the frail fragments of memory, history and of past, present and future society.
The first time I visited her atelier I plunged into the pureness of whites, into the black of signs, mirrored on the chromed steel, I sank into the intimacy of a deep dimension, where shape, matter and language become architectural carriers, places of investigation, essential basis on which the artist skillfully builds her narrations on the structures of knowledge and human communication, questioning herself on the issues of our time, on the anthropologic and sociologic condition of existence. In that same moment I realized that for Marisa Albanese “art is a vital act”, the piece is a universe where the artist defines the sense of art today among the unstable lines of time and scape. It’s precisely the time and space of this never-ending journey that weave a fabric that becomes thought and action in her works, pieces that move along a territory in continuous mutation, where our lives flow incessantly.
“Can I be a closed sea? Can I build barriers? Can the rescue become an imprisonment? These are the questions that mare nostrum, our Mediterranean sea, writes on its own salt”, this is how Marisa Albanese, in Mare chiuso defines the borders of space and present time, faces the difficult condition of migrations, traces a wound, still fresh and painful, of our recent history. An expanse of salt, visual metaphor of the Mediterranean Sea, is crossed by a steel tip which creates a physical and imaginative frontier, a scar becoming a barrier increasingly more difficult to overcome for those existences braving a desperate journey towards freedom.
That of the Neapolitan artist is a journey meant as a relocation, a disorientation of memory that, as Agamben underlines, is “the organ that shapes reality, that can turn real into possible and possible into real”. Marisa Albanese seems to reread the concepts of existence and identity starting from the “components of argument” that Aristoteles identified in the Rhetoric. Her works become an alphabet, a glossary recoding human existence, “critical spaces” representing ethos intended as rule, behavior, of logos as a manifestation of thought, as choice and ability to narrate, and pathos as emotional strength, suffering, drama. Here is the true ontological meaning of the aesthetics of the artist, in this hand-to-hand with conscience, research, analysis, with the unclosing of the finite into the infinite, with the will to research the space of the work, to build structures of meaning and appearance, surfaces at times real at times imaginary, of a narration always observant of the architectures of time and of the meaning
of history.
I have a clear memory of her 2015 exhibition in Villa Pignatelli (Naples) where the dance hall appeared as a pure and violent theater, essential and fragile, where the primary structures of paper meet the banality and the evil of objects. Colpo Mancino (composed of three elements), Finto Oro and Legame become the plot and the outline of a metanarrative for images of the precarious, hopeless and violated conditions of the human being. The white paper, socle du monde, is slashed by a knife, violated and penetrated by the deformed nature, dominated by a golden box containing, in its false magnificence, stories of domestic violence, all the while a restless heads finds its balance between two blocks of pure white. Metaphors for existence, shapes of a ferocious time, the unyielding iconographies of the artist appear as innocent assassins to unmask. The recurring themes are literature, history, human conditions, the anthropologic and sociologic experiences, always examined with focus and lucidity, with a great etic and aesthetic sense and strong emotional impact for the observer. Indeed, her works are iconic traps focusing on the concept of displacement, meant as a condition of change, knowledge, research, but also and above all as obstacle, escape, a situation of precarity and exclusion, during an historic time controlled by a ferocious global system and by a constant existential earthquake. A visual “maze” of experience representing an “iconic change” intended as a recognition of the anthropological and sociological value of the image, as a narrative corpus of time and present life that, using a variety of languages – drawings, installations, videos, sculptures, books – investigates with lucidity, determination and great intellectual value the meta-temporal conditions of the human being.
Thus, Marisa Albanese narrate with images the resistance against oppression, the movements for civil rights with her Giardinieri: Mahatma Gandhi, Rosa Parks, Malala Yousafzai. These three figures, fundamental for contemporary history, are introduced by the artist with a unique and original language, the paperline, of her own creation. A technique that separates the image from the flat surface, allowing to modify the apparently unique point of view of the picture, to relocate, with a reversal of the usual order of vision, the two-dimensionality of the picture towards the three-dimensionality of the sculpture. The overlapping of the paper sheets that creates these icons, becomes stratification of the memory, of the history, of gazes hoarded in the time of humanity, presences that return, in their sculptural form, the lived time.
If it is true that the installations, sculptures and videos are works of great fascination, opportunities to experiment complex and attractive esthetics, to reflect on and examine questions and drifts of present time, it is drawing, her first love – “when I was child I used to draw under the tables, inside and on the side of furniture” – the analytical and narrative tool privileged by Marisa Albanese, her spelling book crossing the pages of her notebooks, her travel journals, the most intimate space where she marks the trajectories of the breath of the landscape, the perception of reality and its alterity, the surface on which her nomad gaze, the gaze of a tireless fighter of arts sets down and remains impressed.
“You can travel sitting on a chair in front of a white wall, or you can travel throughout the world”.
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